GLI UOMINI DELLA RSI
UCCISO PERCHE' AMAVA L'ITALIA Carlo Borsani
visto da Carlo Delcroix
Il «Secolo d'Italia»
ricorda Carlo Delcroix pubblicando un brano di un suo discorso pronunciato
al Teatro Adriano di Roma l'1l febbraio 1951, dedicato a Carlo Borsani,
un eroe della guerra perduta. Il brano è tratto dalla raccolta di
discorsi Quando c'era il re (Rizzoli, 1959).
Il 29 aprile 1945 Carlo Borsani
giacque sull'erba del piazzale Susa a Milano.
A quel condannato non fu necessario
imporre la benda, e dell'ombra che lo fasciava avrebbe abusato la morte
per non dichiararsi. Al plotone di esecuzione il comando di fuoco si suol
dare con un cenno, ed è la misericordia del silenzio, mentre quello
fu il silenzio della viltà che non osò guardare chi non poteva
vederla. Nel chiaro mattino il cieco sorrideva al sole, e qualcuno gli
girò intorno per colpire alla nuca il soldato a cui la gloria aveva
schiuso una rosa in fronte. Carlo Borsani apparteneva alla generazione
dei nostri figli, e non avrebbero dovuto dimenticarlo quelli che lo fecero
uccidere perché, da qualunque parte si fossero trovati, avevano
una qualche responsabilità nella guerra di cui sarebbe stato vittima
tre volte il giovane a cui fu tolta la vista, la vittoria e la vita. Eppure,
il suo nome figurava nella lista dei capi da sopprimere, segno che la sua
fine fu deliberata.
Un giorno sapremo forse chi
sia stato a ordinaria e da chi l'ordine fosse eseguito, ma quello che non
riusciremo mai a sapere né a capire, è di quale colpa si
volle punirlo.
La poesia
Nato il 29 agosto 1917, nessuna
retroattività poteva giungere fino a lui, perché il fascismo
era già affermato prima che egli fosse in grado di compitarne il
nome sul libro di scuola. Anche quando fu cresciuto e la consegna era di
dare il passo ai giovani, egli che aveva tutte le qualità per farsi
avanti non figurò fra i precoci gerarchi e, se una qualche precocità
egli ebbe, fu per la poesia, non quella cortigiana che aprì la via
del successo a molti, oggi passati alla musa progressiva. Non è
a dire che lo additasse all'odio il privilegio della nascita perché,
figlio di un operaio e rimasto subito orfano, fu allevato dalla povertà
e dalla tristezza. Suo padre, un metallurgico vecchio socialista, aveva
trovato la morte in un orrendo agguato della macchina e, se egli poté
studiare, fu grazie alle fatiche e alle privazioni della madre, che si
levò il pane di bocca per evitare al figlio di finire nell'officina,
fra gli ingranaggi che le avevano stritolato il marito.
Così una lavandaia
mandò il figlio all'università, e la guerra lo trovò
studente di lettere a Milano. Aveva però già fatto il corso
per ufficiale di complemento con la sua leva e, quale comandante di plotone,
si guadagnò una prima medaglia nei brevi, sanguinosi combattimenti
che portarono all'armistizio con la Francia.
Energia e rigore
Quando il suo bel reggimento,
del quale aveva composto l'inno, passò fra la neve e il fango dell'Albania
con i rinforzi inviati a raddrizzare le sorti di quella disgraziata campagna,
egli aveva fatto del suo plotone un pugno di arditi. Così pallido
e biondo, dall'aspetto delicato e pensoso, l'occhio azzurro sotto una fronte
spaziosa e scoperta, accompagnava ad una inaspettata energia un rigore
che esercitava sopra sé medesimo, e per questo i fanti lo amavano.
Il 9 marzo 1941 è con
i suoi volontari all’assalto della terribile quota 1252 che egli deve attaccare
di rovescio per attirare il fuoco e facilitare l'avanzata dall’altra parte.
Ferito una prima volta, prosegue finché una granata di mortaio gli
scoperchia il cranio e, creduto morto, stanno per avvolgerlo nel telo da
tenda, quando muove una mano, e lo portano indietro, senza speranza.
Invece sopravviverà,
e un giorno sarà udito cantare e nessuno potrà credere che
la voce sia uscita da quello strazio. Il canto nasce ogni volta che la
notte si sposa al silenzio: così egli tornava alla vita dall'oscurità
che lo aveva avvolto, ma la sua sorte era segnata da quel giorno, e non
potrà essere divisa da quella della guerra che non si poteva vincere
e che fino all'ultimo egli si rifiuterà di credere perduta.
L'orgoglio
Non è possibile rinnegare
la guerra a chi ne fu straziato, né separasene quando sia entrata
nelle carni, e per lui accettare la sconfitta sarebbe stato barattare l'orgoglio
con la pietà. Niente può persuaderlo che la guerra, per cui
non rivedrà più il sole, sia stata un errore o un inganno,
e seguiterà a sperare anche quando la speranza sarà disperazione.
Per questo alzerà la voce anche nel fragore del crollo, quando l'incitamento
sarebbe stato, non soltanto inutile, ma assurdo. Per questo fu punito,
e forse si volle sopprimerlo perché il suo grido, che era già
un lamento, non diventasse un rimprovero, come se oggi non fosse più
temibile il suo silenzio. «Restituiteci in misura d'amore ciò
che abbiamo dato in misura di sangue», aveva detto chiedendo che
i soldati fossero amati per quanto avevano sofferto. Gli fu risposto con
tre attentati, ma egli si ostinò a credere che non si sarebbe osato
ucciderlo, e solo un mese prima della morte fu avvertito in sogno che per
l'invidia di Caino il sacrificio è un delitto da non essere perdonato.
Lo spirito della gioventù
Sognò di parlare, come
infatti aveva parlato, dalla gradinata del monumento ai caduti di Monza,
e la folla si precipitava su di lui, minacciosa e urlante. Lungi dal fuggire,
le andava incontro gridando: «Perché mi uccidete? Io ho solo
amato l'Italia». Proprio per questo doveva essere ucciso, e con lui
non si spense soltanto una giovane vita, ma lo spirito della gioventù
che oggi, muta e crucciata, si chiede a che valga credere e servire quando
tutto l'oro del sole non valse a riscattare chi si era dato in ostaggio
alla vittoria.
L'ULTIMA CROCIATA N. 4. Aprile 1997. (Indirizzo
e telefono: vedi PERIODICI)